Faceva caldo ieri davanti alla lapide in marmo nei giardini intitolati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a Marina, a fianco della Asl, proprio come allora, in quel torrido pomeriggio del 19 luglio 1992. Il caldo appiccicava i vestiti addosso, proprio come quel giorno. Ma possiamo solo immaginare l'afa che si respirava a Palermo in via D'Amelio, quando Paolo Borsellino e la sua scorta saltarono per aria.
Erano le 16:58 del 19 luglio del 1992: nessuno poteva sapere cosa sarebbe successo dopo, la stagione o meglio l'epoca che si sarebbe aperta in Italia, ma tutti intuirono e in qualche modo immaginarono. Dopo Giovanni Falcone, il creatore e inventore di strumenti all'avanguardia nella lotta alla mafia studiati persino dalla Fbi, tra cui la principale intuizione, la Superprocura per le indagini coordinate sulle organizzazioni mafiose, fu la volta di Paolo.
L'amico fraterno che raccolse il testimone del magistrato ucciso nell' attentato a Capaci e che pur conoscendo bene il destino a cui stava andando incontro ("io sono un cadavere che cammina»" disse in un'intervista dopo l'uccisione di Falcone), non fece un passo indietro. Una trattativa con la mafia che non accettò. La sua Agenda Rossa, si sa, non fu più ritrovata lasciando così un vuoto nelle indagini e allungando l'ombra di inconfessabili sospetti nella popolazione. A saltare in aria in via d'Amelio e a Capaci due mesi prima e in via dei Georgofili un anno dopo, non furono infatti solo i due magistrati, le loro scorte e le cinque vittime di Firenze, fu la identificazione, la compenetrazione tra popolo e Stato. Lo schiaffo destinato al presidente della Repubblica proprio durante i funerali degli agenti della scorta di Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, ne fu un segno tangibile.
Tutto questo è stato ricordato dal coordinamento comunale di Fratelli d'Italia assieme al dirigente nazionale Alessandro Amorese e a Marco Guidi, coordinatore provinciale, davanti al monumento nei giardini pubblici marinelli.
Tra loro anche un ex agente di polizia che ebbe la fortuna, come dice lui stesso, di scortare il giudice Borsellino, cinque anni prima dell'attentato. Fu per un giorno solo, racconta e non ebbe paura nemmeno per un attimo. "Io guidavo, andavamo a Roma, venivamo dagli studi giuridici di Pontremoli organizzati da Ferri. Era un tipo taciturno-lo descrive Antimo Grassia, con l'inconfondibile accento di Napoli che stenta sempre a scomparire dalla bocca della sua gente anche quando si allontana e va a vivere altrove, proprio come è successo a Grassia, dal 1973 a Carrara-leggeva tutti quei faldoni e quelle carte e poi fumava. Fumava tanto. Sembrava una persona pacata, molto calma".
Amorese, in particolar modo, ha ricordato la battaglia culturale che vive dietro la lotta alla mafia: «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo», ha rinnovato le parole pronunciate da Borsellino, il quale, ricorda con orgoglio Amorese, nel 1992 quando si trattò di andare a eleggere il nuovo presidente della Repubblica, e quando bruciò l'ipotesi Giulio Andreotti sul fragore della strage di Capaci, venendo poi eletto Oscar Luigi Scalfaro, l'Msi propose Paolo Borsellino, il quale però raccolse solo i voti del Msi o poco più. "Fu paradossale-rimanda alla cronaca di quei giorni Amorese-da lì nacque la trattativa con la mafia: il popolo insorse ma lo Stato trattava".
Ricorda ancora Alessandro Amorese: Borsellino si avvicina giovanissimo a Giovane Italia, il movimento giovanile studentesco di destra, poi nel Fuan, il movimento universitario di destra, approda infine al Msi:"Poi entrò in magistratura-racconta- e vorrei ricordare un aneddoto: prima di andare a trovare la madre in via D'Amelio, pranzò assieme all'amico Peppino Tricoli, deputato regionale Msi".
Lorenzo Baruzzo, responsabile regionale del dipartimento legalità e sicurezza di Fratelli d'Italia, nonché coordinatore comunale parla di presa di coscienza:"Dopo le stragi di mafia di quel periodo non abbiamo più dimenticato il grido di dolore di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, agente di Falcone". Io vi perdono, straziata dal dolore e in lacrime disse in Chiesa, però voi dovete mettervi in ginocchio. "E molti allora capirono che la mafia era un nemico da sconfiggere" ha sottolineato Baruzzo.
Soprattutto ha fatto riflettere l'intervento di Marco Guidi, che ci rimanda involontariamente a un fatto singolare ma significativo: il ricorrere così spesso della parola mafia, sui muri delle vie e dei vicoli stretti di Carrara:"In una provincia come questa-ha detto Guidi- dove la disoccupazione è alta, la mafia trova terreno fertile-mette in guardia il coordinatore provinciale-ma come venne scritto su una maglietta di un ragazzo durante una delle tante manifestazione per ricordare i due magistrati: le loro idee cammineranno sulle nostre gambe. Finché li ricorderemo non moriranno mai".